Aboliamo le “quote digitali” nel giornalismo italiano

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Due giorni a discutere di giornalismo digitale a Firenze, per Dig.it, un evento che ha riunito più o meno tutte le “teste pensanti” del web e della professione. Difficile trovare un momento di maggior approfondimento su tutte le tematiche e le problematiche che intrecciano le “frontiere digitali” del giornalismo. Tecniche, ruolo dei professionisti, accesso alla professione, modelli economici, prospettive, sul tavolo c’era davvero tutto e le discussioni sono state intense e ricche. Quello che rimane, però, è la sensazione che tutto questo sia sbagliato in origine. Non certo la necessità di approfondire temi e problemi, che pure ci sono e spesso gravi e complessi, quanto il fatto stesso di dover, ancora oggi, pensare a un “giornalismo digitale” che, per definizione, si contrappone a quello “tradizionale”.

Nel denso flusso di twitter che ha accompagnato la manifestazione di Firenze, del 4 e 5 luglio scorsi, uno, a mio parere, spicca sugli altri: “siamo rimasti a due anni fa”. Una sintesi brutale, se volete, ma aderente alla realtà. Due anni fa, infatti, e negli anni precedenti, si parlava degli stessi temi, in una sorta di battaglia che vedeva da una parte i colleghi garantiti delle grandi testate “tradizionali”, con accanto schierati sindacato e ordine, arroccati sull”‘hamburger hill” della professione, rintuzzare l’assalto delle truppe di “nuovi giornalisti” digitali, dei sostenitori delle forme di “giornalismo dal basso”, del “citizen journalism”, dell’informazione partecipata e, soprattutto dei giovani che tentavano di forzare le difese e iniziare a fare questo mestiere, chiedendo una cosa semplice: essere retribuiti il giusto.

A Firenze è emerso forte questo tema: siamo ancora qui. Ancora a discutere su cosa sia il giornalismo digitale, quali siano i modelli di business, quali gli approcci per risolvere il problema dei precari e dell’equo compenso. Sono riecheggiate ancora discussioni accanite su se il citizen journalism sia o meno giornalismo, se le notizie in Rete vadano o meno verificate. Se gli influencers e blogger possano o meno definirsi “giornalisti” o, quantomeno, “personaggi che fanno informazione”. Ha girato, fra i partecipanti, il video del segretario dell’Ordine dei Giornalisti del Piemonte, Paolo Girola, che definisce – con toni leghisti – chi fa informazione online alla stregua di un gruppo di immigrati che ruba il lavoro ai “poveri” giornalisti tradizionali, additando, in pratica, Internet come il male (guarda qui il video).

Insomma, nulla di nuovo sul fronte Occidentale eppure sono passati due anni, anzi ne sono passati tanti. I dati parlano di una crisi irreversibile dell’editoria tradizionale e di una crescita irresistibile dei media digitali. Invece di smettere di parlare di “giornalismo digitale” versus “giornalismo tradizionale” e di iniziare a parlare di giornalismo e basta, di una professione che va reinventata, ripensata, recuperata, tirata fuori dal pantano del discredito in cui è caduta, ci si accapiglia ancora fra piombo e byte.

Conosco bene gli organizzatori, gli eroici colleghi di Lsdi – in piccola parte ho contribuito anch’io, oltre ad aver moderato un panel e partecipato a un altro – e so che il loro obiettivo era proprio questo. far esplodere la contraddizione, portare allo scoperto la patologia della professione e non certo realizzare un ritiro per guru delle nuove frontiere dell’informazione. Ci sono riusciti, in pieno. Dig.it col suo stesso definirsi “Incontro sul giornalismo digitale” ha stigmatizzato che, fin quando non verranno eliminate le “quote digitali” dal giornalismo, fin quando non spariranno gli aggettivi digitale e tradizionale e non si affronterà la professione per quello che deve diventare e per il ruolo che deve recuperare, tutto rimarrà fermo, immobile e chi ne pagherà il prezzo è una professione il cui ruolo culturale e sociale è e rimane fondamentale, ancor di più in una società liquida e veloce come quella del Web.