Odio sul web e fake news, la patologia è sociale non digitale

7277

L'odioEsistono le parole digitali? C’è differenza fra ciò che diciamo verbalmente e ciò che “diciamo” nell’ecosistema digitale? Si, sembra essere la risposta comunemente condivisa. Certo, l’ecosistema digitale ha alcune caratteristiche che influiscono sui comportamenti di chi vi abita. Tanto per cominciare non esiste l’interazione personale diretta, foriera di freni inibitori, di condizionamenti sociali, di soggezioni interpersonali, di gerarchie percepite o imposte. Insomma sui social si dicono cose che non si ripeterebbero se si avesse il destinatario davanti. Ma si dicono cose che si dicono al bar, sugli autobus, fra amici, davanti la macchinetta del caffè in ufficio o negli spogliatoi del campo di calcetto. Alla fine, quindi, sul digitale si dicono cose che pensiamo e che a volte diciamo in altri contesti o che, per autocensura o per condizionamento sociale, ci teniamo per noi.

Quindi no, le parole digitali non esistono, tantomeno le “parole Ostili” digitali, per citare un evento al quale sto per partecipare. Non esiste un odio in Rete o un odio della Rete come fenomeno a sé stante, indipendente e autogenerato dall’ecosistema digitale. Esiste l’odio, il rancore, la violenza, il sessismo, il razzismo, l’ignoranza e il Web, le piattaforme social non sono altro che tecnologie abilitanti all’espressione in forme e modalità diverse e più potenti, di qualcosa che pre-esiste.

Le battaglie contro l’odio in Rete, peggio i paventati provvedimenti di legge sono iniziative al minimo inutili, al massimo strumentali a volontà liberticide e censorie. L’unica cosa di cui non si parla mai in questo fiorire di iniziative contro la violenza digitale è che manca è la consapevolezza. Non si è consapevoli della “forza” dello strumento, dei danni che può provocare, di come dovrebbe essere una convivenza civile digitale. Manca questa consapevolezza a qualsiasi livello. Manca alla persona che trova facile insultare quel personaggio famoso o avversario politico. Manca alla ragazza che si riprende mentre fa l’amore e poi condivide il video “fra pochi amici”, manca all’adolescente che “bullizza” la sua compagna di scuola non particolarmente attraente, manca a chiunque non consideri il Web come parte del proprio contesto sociale.

Per rimediare a questo non bastano certo manifesti per le buone pratiche, raccolte di firme o appelli ma serve insegnare educazione digitale, servono operazioni culturali ampie che contribuiscano a costruire consapevolezza ed educazione allo strumento. Così come s’impara e s’insegna a comportarsi in diverse situazioni sociali, così si deve imparare e insegnare a comportarsi e a gestirsi sui social e sul web.

Discorso complesso, lo ammetto, reso ancor più difficile se si tiene conto di quel dato che parla di quasi il 70% di italiani analfabeti funzionali, ovvero al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura o nell’ascolto di un testo di media difficoltà.

A questo poi dobbiamo aggiungere la mancanza di consapevolezza o la dolosa responsabilità di quanti dovrebbero invece essere i primi a “dare l’esempio”. Parliamo dei componenti di quella che una volta era definita l’élite culturale. Così abbiamo politici e giornalisti che sono i primi ad abbassare il livello dello scambio ed alzare il tono dello scontro sul digitale. Gli insegnanti (non tutti certo) non in grado di comprendere loro per primi il cambiamento e quindi incapaci di preparare i giovani.

Su tutto un sistema dell’informazione che, schiavo del modello di business, digerisce notizie a ciclo continuo, senza verificarne l’autenticità ma col solo scopo di “fare traffico”, nutrendo così quel fenomeno delle fake news di cui tanto si parla ma che certo non è stato inventato dal digitale ma da questo viene amplificato e potenziato anche e soprattutto perché c’è chi, in maniera assolutamente cosciente e organizzata oppure per inconsapevolezza, attiva dinamiche precise di diffusione e amplificazione di notizie false o tendenziose.

Il digitale, i social network, hanno peculiarità tecniche e dinamiche proprie che incidono e influenzano i comportamenti delle persone ma, alla fine della storia, il web altro non è se non lo specchio della nostra società, se volete uno specchio convesso, che ingrandisce e deforma ma pur sempre uno specchio. Non ha alcun senso coprirlo o provare a modificarne la forma, ciò che riflette non cambierà. E’ necessario intervenire a monte, iniziare ad accettare che la patologia sia sociale e non digitale. Il resto sono solo chiacchiere.