Scoppia il caso Ferragni, la crisi del decennio e improvvisamente il mondo riscopre i comunicatori: le aziende coinvolte li ingaggiano per risolvere la situazione, le televisioni e i giornali li chiamano per intervistarli e spiegare cosa stia accadendo, gli amici a cena improvvisamente scoprono che mestiere fai e ti chiedono cosa ne pensi, come si risolverà, fra i comunicatori stessi parte la caccia a chi è stato chiamato da chi. Una sorta di meta-fenomeno mediatico, comunicazione che chiama comunicazione, attualità che illumina una fetta di mondo. Così, improvvisamente, un mestiere a volte bistrattato o guardato con sospetto, più spesso considerato confinante con l’irrilevanza si è preso la scena.
Improvvisamente (e finalmente), i comunicatori sono diventati gli esperti del momento, al pari dei virologi in pandemia, dei criminologi per il grave fatto di nera, del giornalista per l’ultima polemica politica o del generale in pensione per analizzare gli scenari di guerra. Così vediamo Andrea Barchiesi sulla Rai, intento a spiegare come lavori la sua agenzia, Matteo Flora regolarmente ospite dei salotti Mediaset per spiegare cosa sta facendo o non facendo la Ferragni, il sottoscritto chiamato da Dritto & rovescio per approfondire cosa sia una crisi e quanto possa far male a un’azienda, Riccardo Pirrone che provocatoriamente propone una soluzione sul Sole 24 Ore, Stefano Colmo che spiega cosa potrebbe fare Balocco su QuiFinanza, ma la lista è lunga e ogni testata o trasmissione ha scelto il suo comunicatore.
Dall’altra parte la geografia del “pronto soccorso crisi”, con Community di Auro Palomba che è stata chiamata dalla Ferragni per tentare di gestire la valanga che l’ha investita, The Magician, agenzia fondata da me, Matteo Flora e Giuliana Carosi, chiamata da Dolci Preziosi per tutelare e chiarire il loro ruolo nell’affaire, mentre Balocco sembra volersi gestire da sola, lungo la strada del silenzio.
Ora, al netto della normale riscoperta da parte del sistema mediatico, sull’onda dell’attualità di comunicatori, esperti di crisi e di reputazione, quel che si spera il caso Ferragni abbia finalmente insegnato è che i comunicatori si chiamano certo per chiudere le stalle e per recuperare i buoi quando sono scappati, ma dovrebbero essere chiamati per evitare di lasciarle aperte, le stalle. E mi riferisco proprio al fatto che la Ferragni stessa avesse notizia dell’istruttoria sin dall’11 luglio, a differenza delle altre aziende coinvolte.
La comunicazione non è solo marketing, promozione di prodotto, campagne social e bei video per tik tok ma è anche e soprattutto dati, studio, strategie, tattiche per costruire, valorizzare e difendere la reputazione. Sì, proprio quella che Chiara Ferragni rischia di dilapidare per non aver compreso in tempo come sarebbe stata interpretata la notizia di una sanzione dell’Antitrust e non essersi attrezzata con gli stessi esperti di reputazione e comunicazione che ora discutono il suo caso sui media o stanno cercando di limitare i danni.
Aziende lungimiranti investono tempo e denaro per prepararsi alla crisi, modificando le procedure interne, formando il loro personale, mappando i rischi, organizzando esercitazioni. Altre si dotano di comunicatori professionisti in grado di “leggere” i segnali deboli e di attrezzare le giuste azioni per scongiurare rischi ben più gravi. Ma tante non lo fanno e i risultati si vedono, data la lunga sequenza di crisi che hanno investito aziende e personaggi in questi ultimi tempi.
Noi comunicatori siamo contenti di essere in televisione e sui giornali ma siamo abituati a lavorare dietro le quinte e il vero successo, per chi fa questo mestiere, è che i brand e i personaggi che seguiamo siano apprezzati e ben reputati e non certo nell’occhio del ciclone. Come diceva un vecchio adagio: prevenire è meglio che curare.