Cosa si fa se si pubblica una notizia sbagliata o non corretta? Si corregge, è ovvio, si dirà. Sì, è ovvio ma non nel mondo dell’informazione online. Il sistema dell’informazione digitale ha consolidato una serie di cattive pratiche, alcune imputabili a un mal interpretato ruolo di “libera voce” che si assumono i blogger e che si risolve in una sostanziale mancanza di consapevolezza e responsabilità del proprio ruolo, oltre al non rispetto delle più elementari regole deontologiche del “fare informazione”.
Il blog è, oggi, un luogo web dove ognuno può e deve esprimere il proprio pensiero. Andrebbe bene se ci si limitasse, appunto, ad esprimere il proprio parere ma il più delle volte i post danno notizie, interpretazioni di fatti e situazioni, stigmatizzano o informano su scelte politiche o aziendali. Questa attività a metà fra il vecchio editoriale e l’informazione si svolge spesso su blog che sono percepiti e vissuti come luoghi dell’informazione, seguiti da migliaia di persone, in grado d’influenzarne le opinioni, media insomma, nella definizione accademica.
Sarà che per molti vale l’assioma che “blogging non è giornalismo” ma non si prendono in considerazione basilari regole deontologiche, per esempio quella del contraddittorio. Si scrive il post, costruendolo magari su fonti non verificate, spesso tratte dal web o semplicemente dando sfogo a una propria idea o interpretazione e si pubblica. Fa niente se poi si scrive qualcosa di non corretto o peggio assolutamente falso e soprattutto non si dà la possibilità al soggetto protagonista negativo di quel post, che so, magari un’azienda, di comunicare la propria posizione o, più semplicemente, di dimostrare che quella notizia non sia vera.
“Ma come – mi viene sempre risposto – sono aperto al dialogo, se mi dimostri che sbaglio ridiscutiamo il post”. Fare informazione non è un processo penale, se sono parte in causa di un articolo, di un’informazione ho il diritto di essere interpellato prima e quantomeno di vedere la mia posizione pubblicata. Se poi, a seguito di una semplice verifica, la notizia si rivela infondata, ho il diritto di non vederla pubblicata e il blogger il dovere di non pubblicarla. Ma se proprio si è pigri, almeno, di fronte alla dimostrazione fattuale che parliamo di qualcosa di inesistente, ho il diritto di veder sparire quel post.
Nella blogosfera troppo spesso l’onere della prova ricade sempre su chi “subisce” il post. Un onere a posteriori, che è necessario attivare dopo che il post è già online, magari ormai già bello che diffuso sui social network. Il “dopo”, online, significa irrecuperabilità del portato valoriale dell’informazione. Migliaia di persone hanno letto e condiviso quel contenuto e anche se, come mi è successo più e più volte, alla fine si ottiene di modificare il post e di correggere l’errore, ormai il danno è fatto. Non si può certo andare a riprendere, una per una, le persone che sono entrate in contatto con il post errato ed è fantascienza pensare che chi abbia letto una volta torni a vedere se ci sono modifiche. Tutto questo senza dimenticare che il post modificato non viene certo condiviso nuovamente.
E allora ecco i blogger che scrivono post al vetriolo contro una banca, rea di aver quasi condotto al suicidio un piccolo imprenditore, che pure aveva, a suo dire, vinto più volte in tribunale, salvo poi scoprire che, in realtà il tribunale aveva dato ragione alla banca. Sentenze alla mano (inviate via mail dall’ufficio stampa della banca) gli stessi blogger si rifiutavano di modificare o mettere offline il post (ne avevo scritto qui). Quello che accusa una grande azienda di deturpare un monumento con un immenso cartellone pubblicitario, salvo poi essere messo di fronte al fatto che si trattasse del cantiere di un restauro, la cui responsabilità non era dell’azienda. Ovviamente il post è ancora online, intonso. E ancora quello che accusa un’altra grande azienda di radere al suolo le foreste tropicali, salvo poi essere messo di fronte alla prova che così non fosse. In questo caso è stata pubblicata la rettifica, sulla cui assoluta inutilità come strumento sul web scriverò poi. Comunque una rettifica è stata pubblicata ma costruita su materiale ufficiale serenamente rintracciabile in Rete. Non dico una telefonata all’azienda ma una ricerchina su Google, prima di scrivere, no?
Le più elementari regole deontologiche prevedono che chi informi debba verificare a fondo le fonti e dare la possibilità del contraddittorio, non scaricare l’onere della prova una volta che la notizia è pubblica. Già ma i blogger, sosterranno in molti, non sono giornalisti (spesso lo sono, a dir la verità) ma fanno informazione, dico io, e dovrebbero esserne consapevoli e quindi rispettare regole che prima che essere deontologiche sono di correttezza e buon senso.
Questo scenario si aggrava quando si parla di blog che risiedono sulle piattaforme di mainstream: Huffington Post, Linkiesta, Il Fatto quotidiano, Wired, Espresso, Repubblica, Corriere, Sole24Ore. In questo caso il confine fra blogging e giornalismo è davvero labile e i vari blogger assumono l’autorevolezza della testata che li ospita.
Siamo così di nuovo al punto iniziale: fare blogging è fare o no giornalismo? In questo senso è la domanda che è posta male. Fare blogging vuol dire, ormai, fare informazione. Chi si assume l’onore d’informare, con o senza tesserino professionale in tasca, deve assumersi anche l’onere di fare buona informazione, verificata e accurata, rispettosa della verità e delle parti coinvolte e con la piena consapevolezza della responsabilità che consegue dal grande potere che il Web ci regala. Non si tratta solo di uno sfogo di chi, come me, è pagato per tutelare la reputazione di un’azienda, ma di un danno pesante alla credibilità dell’intero sistema dell’informazione sulla Rete.