Il neo-tribalismo digitale e la distanza della politica

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La politica discute di nuove forme di organizzazione, di come ripensare il proprio modello e di conseguenza le forme della leadership e le sue dinamiche di legittimazione. In questo dibattito il web, la Rete entra per lo più, quando va bene, come nuovo media, come nuova forma di propaganda digitale. Con il web si parla agli elettori, si fa campagna elettorale digitale. “Guardate Obama”, si sente ripetere nei convegni, ha vinto sfruttando bene Internet. Quello che però sta sfuggendo al dibattito, a mio avviso, non è tanto l’analisi del ruolo della Rete come media, come potente “cinghia di trasmissione” dei messaggi politici e come possibile combustibile del consenso quanto del suo ruolo paradigmatico e socio-culturale. Ciò che, infatti, prima era un paradigma sociale confinato fra le maglie di Internet oggi sta esondando nel contesto sociale reale, influenzandone anzi, mutandone profondamente le dinamiche di funzionamento. Questa esportazione di un modello sociale da un ambiente digitale verso quello offline sta mutando non solo le forme organizzative collettive ma sta modificando anche la scala di valori di riferimento che attiva queste forme. Dall’altra parte l’impatto investe in pieno i modelli della leadership, fino ai meccanismi di legittimità e legittimazione. Il tutto in un contesto in cui il consenso si sta via via riducendo a fidelizzazione, ovvero a un processo di “scelta temporanea” e labile, basata su pochi, a volte elementari elementi attivanti che è facile sostituire con altri.

Jon Postel, considerato il vero padre fondatore di Internet, nel 1981, postulò la legge che porta il suo nome e che descrive il “funzionamento sociale” della Rete: “Sii prudente in quello che fai, sii liberale in quello che accetti dagli altri” (“be conservative in what you do, be liberal in what you accept from others”). Interpretata in chiave sociologica, questa legge stabilisce che in Rete è necessario essere “prudenti” e quindi rigorosi, rispettosi, esatti e precisi per ciò che in Rete si propone agli altri. Mentre bisogna essere “liberali” ovvero favorire e rispettare la libertà di pensiero e d’iniziativa altrui nell’atto di ricevere. In sostanza Postel postulò che la Rete è un ecosistema sociale il cui motore è la comunicazione basata sullo scambio, sull’apporto di valore da parte di ognuno, sull’interazione, sull’ascolto, sul rispetto dell’altro. Chi entra e comunica in Rete si assume una responsabilità per ciò che dice o fa ma anche una responsabilità verso l’altro, ovvero l’impegno a interagire, ad ascoltare, a condividere.

Sino a pochi anni fa questo modello sociale era ristretto all’interno di una ristretta elite di alchimisti digitali che parlavano un linguaggio oscuro ai più e che avevano costruito un mondo digitale di tipo reticolare, basato, appunto, sulla condivisione piena e trasparente, sulla collaborazione, sull’eguaglianza di tutti con tutti e su una dinamica di costruzione della leadership basata sul riconoscimento del valore di uno da parte del resto dei componenti la comunità. Una sorta di tribalismo digitale esclusivo e isolato dal “mondo reale”, dal quale non mutuava alcun modello di comportamento o valore e che, a sua volta non ne esportava.  La stessa base concettuale dell’algoritmo di Google si basa sui “voti” che una singola pagina web riceve dalla Rete stessa, considerando come voti i link che verso quella pagina puntano e che quindi ne considerano interessante e attendibile il contenuto.

L’avvento del web ha sciolto il nodo della complessità tecnica e ha cooptato in rete chiunque e ha trasformato Internet in un prolungamento digitale del contesto sociale. Quelli che prima erano sacerdoti di un culto oscuro sono diventati operai che, in sala macchine, lavorano per rendere semplice la complessità tecnica delle infrastrutture di rete, di protocolli e algoritmi di compressione. Il Web, oggi, è user-friendly , non offre barriere concettuali di alcun tipo. Quello che però non è cambiato è il modello sociale che lo regola. In Rete tutto è condivisibile, tutti possono anzi devono dir la propria, tutti sono esattamente allo stesso livello, con i medesimi diritti e doveri.

Una forma spinta di democratizzazione del modello sociale, si è spinto a dire qualche analista, portando il web come primo esempio della fattibilità concreta della democrazia diretta o della democrazia continua. Dall’altra parte, però, questa forma di democrazia digitale non ha eliminato ma anzi ha rafforzato una sorta di modello tribale che, questa volta, riguarda tutti gli abitanti della Rete. Sul web si formano community, vere e proprie comunità che si saldano attorno a fattori di coesione costituiti da interessi condivisi, necessità, esigenze. Al loro interno si evidenziano leadership incarnate da soggetti definiti influencers, ovvero singoli che riescono a costruirsi una reputazione online, per quello che dicono, per come lo dicono, per il loro bagaglio di informazioni, e, soprattutto per la capacità di soddisfare le esigenze immediate della community stessa.

I processi di creazione di queste community possono e sono spesso indotti dall’esterno, attraverso la proposizione di un bisogno, un’esigenza appunto indotta, come nel caso di community nate su input di brand commerciali, attorno a marchi o ai cosiddetti “lovebrand”. Più in generale le piattaforme entro cui queste community “vivono”, (i grandi social network, ad esempio) sono controllate da oligopolisti digitali che impongono le loro regole di funzionamento e, di fatto, controllano le community stesse o ne influenzano pesantemente il funzionamento, imponendo, ad esempio limiti censori sui temi affrontati e sulle modalità con cui possono essere affrontati.

Sin qui il mondo digitale. La politica sinora si è posta solo l’esigenza d’imparare a interagire con questo modello e ripensare i propri paradigmi comunicativi per poter “essere in rete” in maniera efficiente. Quello che il dibattito sui nuovi modelli organizzativi non sta tenendo in considerazione, come dicevo prima, e che rischia di vanificare qualsiasi ipotesi è che il modello sociale del web è ormai esondato nel contesto sociale reale.

La società è attraversata da fenomeni di tribalismo momentaneo, fenomeni di mobilitazione e aggregazione di movimenti e gruppi che si coagulano su piccoli interessi, privi di prospettiva storica e di visione futura. Non esistono programmi, visioni della forma sociale, idee, strategie. Non esistono contesti sociali, grandi valori condivisi tantomeno ideologie o appartenenze culturali. Esiste un unico, immediato interesse da soddisfare: l’acqua, il caro vita, la distribuzione egualitaria della ricchezza, la lotta all’economia finanziaria, il rifiuto di pagare un tributo, la protesta contro un’opera pubblica, sino al piccolo interesse urbano. Battaglie completamente decontestualizzate, astratte dalla stessa società che le produce, completamente introflesse nella comunità di quanti condividono quell’interesse. Interesse minimalista, condiviso solo perché è immediatamente percepito come presente e saliente dai singoli e perché ne tocca la sfera più personale e immediata. La mobilitazione così perde prospettiva e progettualità, perde visione, perde la capacità di saldare la passione e la lotta politica sull’impegno a costruire. Il coinvolgimento si esaurisce nella soddisfazione minimalista del singolo interesse isolato.

Una dinamica esattamente identica alle community digitali, anch’esse coagulate intorno a un singolo interesse, decontestualizzato e senza visione prospettica. Interesse che si esaurisce nella sua soddisfazione immediata e disintermediata e che quindi non ammette sovrastrutture organizzative, forme di regolamentazione della partecipazione. Le community si autoconvocano, decidono coralmente la forma di lotta più consona, la mettono in atto, valutano collettivamente i risultati e pianificano la strategia, sino alla soddisfazione dell’esigenza o al suo venir meno, il che provoca il liquefarsi della community. La similitudine fra dinamica on e offline è evidente e ormai invalsa come paradigma unico di attivazione sociale.

Anche la formazione delle leadership è del tutto simile. All’interno di movimenti spontanei offline e community online si identificano influencers che prendono la guida del movimento sulla base di una legittimazione collettiva, che va costantemente confermata –come è nel web – e che non risponde ad alcuna regola o istituzionalizzazione del ruolo, tantomeno a teorizzazioni della sua legittimità, a dinamiche di alternanza garantite da regole “costituzionali”. Il leader è tale perché lo decide la tribù, tribù che poi, proprio per la percezione di parità orizzontale e di pari ruolo, tende a mantenere una struttura reticolare e a gemmare altre community o semplicemente a sciogliersi, per tornare a coagularsi nuovamente su temi e interessi completamente diversi, riproponendo altre leadership.

Di fronte a questo mutamento ormai consolidato e in via di ulteriore evoluzione, la politica ha reagito balbettando. Dal tentativo di “mettere il cappello” sul singolo movimento ad agevolarne la lotta per scopi elettorali i tentativi si sono sempre infranti sull’impossibilità di forzare le nuove categorie della mobilitazione e dell’impegno nelle vecchie stanze dell’organizzazione di partito. Semplicemente i movimenti non sentono condivisi i loro interessi e non accettano la presenza al loro interno dei partiti e dei loro esponenti. Sono percepiti come “altro”, come non parte della community, della tribù e, soprattutto non ne riconoscono la leadership politica mentre, dall’altra parte, la politica non può che riproporre le proprie categorie organizzative, gerarchiche e funzionali, che impediscono di riconoscere le leadership autogenerate dalle forme tribali perché aliene e non legittimate da meccanismi elettorali codificati, in grado anche, fra l’altro, di sintetizzare i pesi interni della struttura-partito.

Qualcuno potrebbe percepire echi lontani di incompatibilità fra movimenti extraparlamentari e grandi partiti ideologici. Ma in quella fase storica lo scontro era di tipo ideologico, sulle forme di lotta. La “forma” politica, il volano della mobilitazione, la visione prospettica della lotta politica erano profondamente condivise. Qui sono due paradigmi sociali incompatibili e strutturalmente diversi che si confrontano e si scontrano. E’ la motivazione profonda dell’attivazione e dell’impegno a divergere, è la percezione della politica come “vecchia”, aliena e incapace di condividere e far proprie le battaglie delle tribù a provocare l’esclusione  della politica stessa dalle comunità autoconvocate.

La stessa cosa che accade online, quando per entrare a far parte della community devi dimostrare di condividerne interessi e dinamiche interne oltre a essere in grado di “portare valore”, contributo fattivo, proprio come postulava Postel. In ultimo essere pronto a riconoscere le leadership. In buona sostanza la community accetta solo ciò e chi percepisce come omogeneo e utile alla causa e, come un organismo vivo, espelle o marginalizza tutto ciò che percepisce come inutile o peggio, dannoso.

Ma se la politica non è riuscita ancora a interpretare ed entrare in comunicazione con questo nuovo paradigma sociale, le aziende questa dinamica l’hanno, invece, ben compresa e stanno impegnando uomini e budget per intercettare, creare, gestire queste community, creando un cross molto forte fra digitale e reale. La tendenza, infatti, è quella di indurre la nascita, nutrire e foraggiare fenomeni tribali comunitari sulla Rete, per poi trasferirne forma e nesso di connessione nel mondo offline, attraverso il coinvolgimento reale e diretto delle persone. Sono le aziende, quindi, oggi, i soggetti in grado d’interagire e interpretare questo modello, ad illuminare e percorrere il ponte fra off e online. Se da un lato le aziende stanno interpretando un paradigma che si è già consolidato, dall’altro stanno decisamente contribuendo a rafforzare una cultura del tribalismo minimalista, soprattutto nelle giovani generazioni, che lo assumono così come unico il modello mobilitativo e di aggregazione sociale attiva.

A questo punto appare evidente come il ripensare i modelli organizzativi della politica non possa prescindere dal considerare questa trasmigrazione di modelli e paradigmi sociali dal digitale al reale. Non possa non considerare nel dibattito questo fenomeno di neo-tribalismo a geometria variabile e questo alleggerimento culturale e concettuale dei fattori di mobilitazione e di aggregazione. Non sono più i grandi temi, i modelli sociali condivisi prospetticamente, tantomeno le ideologie a essere fattori attivanti e nessi di coesione sociale. Si sta assistendo a una progressiva scarnificazione dell’ideale politico sino alla sua riduzione a mero interesse immediato, disintermediato e a-prospettico.

Un nuovo modello organizzativo della politica non potrà che cercare di essere in grado di creare un fattore di connessione per coagulare una community intorno a interessi questa volta non più minimalisti ma inseriti in un contesto storico, in un sistema prospettico di idee.

La sfida è innanzitutto culturale e su due fronti. Interno verso quella che è la classe politica, che dovrà comprendere profondamente il mutamento che sta vivendo, ed esterno, per contrastare l’immiserimento della prospettiva sociale e aggregativa e sostituirla con scale di valori che abbiano un valore prospettico e socialmente e culturalmente costruttivo. Solo così questi nuovi modelli aggregativi potranno essere mutuati e dar vita a una nuova forma organizzativa della politica.