La deriva virale dell’informazione online e il crepuscolo della qualità

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Che succederebbe se a Internet accadesse ciò che successe con le tv commerciali negli anni ’80? Gossip, varietà leggero, scollature e scosciature, infotainment, pubblicità ficcata un po’ dappertutto, veline, velone, papere, misteri paranormali, maghi, tuttologi urlatori, ufo e casi umani, marchette e notizie addomesticate. Insomma tutto ciò che potesse far crescere l’audience era (ed è) perseguito con religiosa attenzione e fa niente che il livello culturale dell’offerta venisse sprofondato a livelli subatomici. Altri tempi, altri media, si direbbe, cosa c’entra Internet?

In uno spettacolare post di luglio scorso, Gianluca neri aka Macchianera ha misurato gli ingombri occupati da contenuti “viral-oriented” sui principali mainstream informativi italiani (Repubblica e Corriere). Tutto un fiorire di video di gatti teneroni, cani cantanti, incidenti bizzarri, scollature provocanti (trending topic!), vacanze vip, flirt, amori finiti e corna inflitte. L’ingombro totale di questi contenuti? Occhio e croce un buon 30% dello spazio, pixel più, pixel meno.

Tutto qui? Neanche per sogno. A Trieste, durante State of the Net
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sono circolati numeri preoccupanti sui referral, ovvero sulla fonte del traffico in arrivo sui grandi mainstream. Si parla di quote di quasi il 30% dei click che arrivano dai social (anche se ufficialmente se ne dichiara un più tranquillizzante 10%). Così, nelle redazioni online, circolano sempre più insistentemente concetti come “virale”, “condivisione”. Concetti che, ed è questo il nocciolo del problema, stanno entrando nel set di criteri utilizzati dai giornalisti per valutare cosa sia o meno “una notizia”.

Insomma, come dicevamo appunto a Trieste con Luca De Biase, fra i criteri di notiziabilità è ormai consolidata anche la “viralità potenziale” di un dato contenuto. Si tende, cioè a scegliere se dare spazio o meno a un dato fatto, sulla base della sua presunta capacità di diventare virale, ovvero di essere condiviso e commentato sui social e quindi di attirare traffico verso il sito del quotidiano.

Si pubblica così il video del gatto pianista e la galleria fotografica della starlette poco vestita e si sceglie con occhio nuovo anche quali notizie dare e come darle (per esempio spezzando l’articolo in decine di “sottocontenuti” facili da condividere e infarcendoli di video e immagini). Qualcuno nota l’assonanza fra questa pratica e la ricerca spasmodica dell’audience “facile” di stampo televisivo?

La domanda da porsi, a questo punto è: quel che è virale è anche di qualità, oppure la grande diffusione si ottiene sfruttando la pancia profonda dei lettori, le emozioni istintive, le pruderie, le morbosità da buco della serratura e la tendenza al disimpegno? Non che sia una cosa nuova e nata con Internet. Durante il festival del giornalismo, Mario Sechi, direttore de “Il Tempo”, da buon vecchio cronista ha detto chiaramente che per vendere i giornali (e l’informazione in genere) continuano a valere le vecchie regole ovvero le tre “S”, sesso, sangue e soldi (vedi qui il video del panel).

Sia quello che sia credo che i giornalisti online e, perché no, anche i lettori, (cioè noi) si dovrebbero chiedere se questa deriva della Rete verso una dimensione da sterminato medium di infotainment a forte caratterizzazione commerciale sia o meno un problema, se sia un concetto sul quale interrogarsi. Sì, perché, in questo caso l’approfondimento, il contenuto più culturalmente ricco troverebbero ancora spazio? Senza parlare dell’utopia della Rete come veicolo e humus di un’intelligenza collettiva più ampia della somma dei suoi singoli addendi, che poi siamo noi. Un’utopia, appunto.

In vista della sempre maggiore integrazione del Web col mezzo televisivo, della migrazione sempre più massiccia sui dispositivi mobili e della morte annunciata della stampa cartacea, la qualità dell’informazione online è un concetto strategico perché tende a rappresentare la qualità dell’informazione tout-court. Il problema è che la rete è ormai governata da un ristretto oligopolio di grandissimi player (Google, Facebook, Microsoft, Apple). Player che hanno tutto l’interesse che la direzione non cambi.
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