C’è un animale che sul Web prospera, che si acquatta nell’ombra e salta fuori improvvisamente, morde e travolge tutto ciò che trova davanti a sé, alzando polveroni che stentano a posarsi e tutto oscurano. Parliamo della bufala, brutta bestia, nemica giurata di chi fa PR ma, soprattutto, vero cancro che divora l’affidabilità dell’informazione. Sempre esistita, sia chiaro, sin dai tempi del piombo e dei ciclostile, ma rara, quasi introvabile. Appariva a volte, per poi non dare notizie di sé per lunghi periodi. Sul Web ha trovato invece il suo brodo primordiale e si è moltiplicata con conigliesca dedizione.
Fuor di metafora, il problema dell’affidabilità dell’informazione online è tutt’altro che liquidabile con una battuta e una mezza risata. Sul Web le notizie false, scorrete, imprecise, si moltiplicano, s’inseguono, diventano virali, crescono di visibilità e fanno danni. Un problema sul quale è stato scritto anche un libro, quel “Trust me, I’m lying: confessions of a media manipulator“, scritto dal 25enne Ryan Holiday, responsabile marketing di American Apparel, ed editorialista su Forbes. Nel libro si spiega come creare una falsa notizia, gettarla in pasto alla Rete ed assistere divertiti a come questa diventi virale. Senza scomodare guru americani, il nostro Luca Conti aveva denunciato una notizia palesemente falsa sulla Rete. Io stesso avevo raccontato un episodio che mi aveva visto coinvolto direttamente. Il problema è proprio che la lista degli esempi è lunghissima, tanto da poter dire che il problema sia sistemico e si basi su due presupposti: la dinamica di produzione e diffusione dell’informazione online e la mancanza di responsabilità di chi produce informazione sulla Rete, riguardo il proprio ruolo. Ma andiamo con ordine. Internet dal punto di vista informativo funziona così: devi avere la notizia, la devi avere possibilmente prima degli altri o, quantomeno, nello stesso momento.
La tempestività garantisce il riuscire a “tenersi” l’utente unico (il lettore) e macinare click. Ambedue sono numeri da presentare agli investitori pubblicitari o comunque trasformabili in valore monetario, con, sullo sfondo, anche la vena competitiva di influencers, blogger, siti, che si pesano proprio su questi numeri e su quelli della viralità che riescono a innescare (qualcuno ricorda la polemica sulla viralità come criterio di notiziabilità?) Un modello di business che si declina sul tempo reale e sull’informazione un tanto al chilo e non lascia alcun margine per un processo di fondamentale importanza che distingue il chiacchiericcio dall’informazione: la verifica. La bufala vive di questa assenza. Tutti gli episodi e gli esempi che si possono elencare non esisterebbero se un giornalista, un blogger un singolo che abbia un minimo di seguito sulla Rete e che si proponga d’informare il proprio “pubblico di riferimento” si fosse preso la briga di verificare la notizia prima di darla. Manca il tempo, quindi, stritolati come siamo dalle maglie di un modello di business che non ammette neanche un secondo di distrazione. Ma quel che ancora di più manca è il senso di responsabilità di chi fa informazione sulla Rete verso il proprio ruolo e i propri lettori. Sul Web c’è una sacrosanta battaglia contro l’utilizzo della querela per tacitare le voci di blogger e giornalisti e ce n’è un’altra, altrettanto importante, contro lo sfruttamento di chi fa informazione, pagandolo con visibilità, vedi Huffington Post e Il Fatto online.
A queste si dovrebbe unire una battaglia, serrata, affinché chi scrive sul Web, chi si veste con la casacca dell’informatore, del Gatekeeper, di colui a cui le persone si rivolgono per approfondire un tema o per essere semplicemente informate, si assuma in pieno la responsabilità del proprio ruolo. Non si pubblica tutto quello che ci passa fra le mani o per la testa, si lavora, si verifica, si fa fatica, si dà onestamente il servizio di fare informazione. Sì, perché il fare informazione è un servizio per i lettori non per chi l’informazione la produce, che sia un giornalista, un blogger o, più generalmente un vero o sedicente influencers. C’è una preoccupante assenza di attenzione e responsabilità, soprattutto fra quelli che ancora vengono chiamati “nuovi media”, proprio quei blogger, quegli influencers che ormai stanno prendendo la ribalta del sistema dell’informazione online. La qualità scende tanto velocemente quanto aumentano i soggetti che si pongono come produttori d’informazione.
Così, ci si lascia coinvolgere in commenti, discussioni. Si producono post e fiumi di byte, salvo poi scoprire che la notizia era scorretta, incompleta, inesatta o, peggio, completamente falsa, una bufala, appunto. Sarebbe bastato fermarsi e verificare. Si perde qualche page views, qualche inique users? La qualità paga, alla lunga e alcuni, bravi, blogger lo sanno bene. Viceversa, se questa deriva non si arresta, perderemmo l’unico vero capitale che ha chi, come noi, informa sulla Rete: la reputazione, coinvolgendo, nel crollo, il Web stesso. Una discreta pratica suicida.