L’era dello (squilibrato) baratto digitale

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settimana-del-barattoCapita di rado ma ritengo che tutto quello che c’è scritto nella bella intervista di Paola Bacchiddu ad Antonio Casilli sull’Espresso sia assolutamente vero o meglio: è vera la cronaca, il resoconto di ciò che accade all’ombra dei grandi player come Facebook, Google, Amazon e via elencando ma è l’analisi, la tesi che ne trae che mi lascia alquanto perplesso. Andiamo con ordine. Il professor Casilli sostiene, stimolato dalla puntuta Paola Bacchiddu, che il Web abbia, di fatto imposto un modello di sfruttamento del lavoro o, per essere più precisi, della prestazione che ognuno di noi effettua in favore delle grandi aziende digitali fornendo, in maniera più o meno consapevole, dati, informazioni che poi sono valorizzate economicamente dalle aziende stesse.

Per sostenere questa tesi il professor Casilli elenca una serie di situazioni che, però, sono assai diverse l’una dall’altra. C’è molta differenza, infatti, fra il modello Huffington Post ovvero una testata giornalistica che usa gratuitamente i contenuti prodotti da blogger, dal modello “a bassa intensità” di Amazon, in cui gli utenti vengono retribuiti sia pure pochi centesimi. Ed è difficile definire “sfruttamento del lavoro gratuito” l’uso che Facebook e Google fanno dei dati e delle scelte dei loro utenti.

E’ vero, come si legge nell’articolo, che la famosa economia del dono – filosoficamente alla base di Internet –  è finita ma l’intervistato dimentica di segnalare che la Rete, oggi, si basa su una nuova forma di baratto. Perché un blogger scrive articoli gratis per una testata giornalistica? Perché ognuno di noi si iscrive a Facebook e, di fatto, pone se stesso e la sua vita privata al centro di un panopticon? Perché usiamo Google e il suo servizio mail? Parliamo di esigenze diverse, di priorità diverse che vengono percepite come abbastanza importanti da cedere impegno, dati, informazioni, impegno, lavoro, in cambio della loro soddisfazione. Così abbiamo l’esigenza di visibilità, di personal branding, di scavarsi una nicchia di visibilità nel mondo del giornalismo che fanno sì che decine di blogger scrivano gratis. La potente visibilità che Facebook garantisce alle persone, la penetrante possibilità d’interazione e, per le aziende, le grandi opportunità in termini di marketing e brand reputation valgono bene il mettere a disposizione i propri dati personali, soprattutto in un momento in cui il concetto di privacy sta subendo una profonda ridefinizione. La sorprendente affidabilità e potenza dei servizi di Google valgono bene lasciare che esso legga le nostre mail.

Accanto a questo non dimentichiamo che parliamo di società private che offrono servizi che ognuno di noi è libero o meno di utilizzare. Si tratta quindi di un accordo fra aziende e i suoi clienti, baratto, se volete. Baratto che possiamo ritenere non equilibrato, basato – come dicono molti critici della Rete – sull’intuizione di furbi capitani d’industria (digitale) che sfruttano la balordaggine dei propri clienti. Ed è questo il vero problema: la mancanza di consapevolezza che impedisce una vera capacità di scelta. Il punto, quindi, non è ciò che i grandi player digitali propongono come retribuzione per i servizi che erogano ma la reale capacità negoziale degli utenti. In buona sostanza ciò che dovrebbe essere garantito è che tutti sappiano con cosa pagano i servizi che ricevono e possano decidere, liberamente, se ne vale realmente la pena.