L’inutile gara per avere più fans e il Web tradito

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“Abbiamo superato i 120.000 amici su Facebook” e partirono gli applausi nella ipermoderna sala riunioni. Poi, calmate le voci d’entusiastico consenso, s’udì qualcuno dire: “Benissimo e ora, che ci facciamo?”. Un gelido silenzio cadde sull’uditorio smarrito. Sguardi che si rincorrevano, mormorii, mani nervose che che si tormentavano e il megascreen con l’epica slide improvvisamente apparve priva di senso come l’icona di una religione estinta.

Una ricostruzione forse un po’ lirica di una riunione alla quale mi è capitato di partecipare ma che, a mio avviso, ben riassume la gara in corso fra chiunque apra un profilo, un account, una pagina ufficiali. La dinamica è semplice: vince chi ha più amici, followers o contatti. E’ una gara tanto sentita che se i numeri non arrivano spontaneamente magari si truccano un po’ le carte e si racimolano in giro, come sostiene il bel post su MyWeb 2.0 di Roberto Favini. Il problema, a mio avviso è il dopo. Che ci si fa con tutti quei followers/amici/fans, anche quando siano tutti veri?

Il ragionamento che sottostà a questa gara è semplice: un numero basso di contatti trasmette un messaggio di scarsa popolarità del brand e quindi lede la reputazione. viceversa, se hai legioni di amici, vuol dire che l’azienda è apprezzata e questo attirerà altre persone.  Piero Tagliapietra lo sostiene, creando un link diretto fra popolarità e reputazione.

Che la popolarità possa essere un elemento di sostegno della reputazione di un brand è abbastanza evidente ma, a mio parere, non è il cuore del problema. Chi entra in contatto con la pagina di un brand è probabile che valuti, in maniera più o meno conscia il numero di amici/followers. Più amici, più popolarità, più affidabilità è il passaggio logico che s’innesca ma io credo che si tratti di un processo iniziale e, tutto sommato, marginale. Quello che conta, invece, è “l’immagine”, in termini di dinamismo, ricchezza dei contenuti, capacità di interazione che la pagina o l’account dà di sé. Insomma, una pagina con migliaia di fans ma che si presenta statica, povera, scarsamente coinvolgente non “tratterrà” la persona che ci è atterrata sopra, anche se questa ha messo un bel “like”.

Un esempio è la pagina ufficiale di Facebook del museo degli Uffizi di Firenze. Oltre 23.000 fans (già di per sé pochi per un’istituzione come questa) ma una pagina completamente non governata, fredda, inerte. Il risultato è che, nonostante i migliaia di fans, non esiste alcun tipo d’interazione e di dinamismo. Quanti di quei 23.000 fans tornano su quella pagina? Quale valore gli Uffizi traggono dalla loro fan-base?

E’ il progetto strategico di comunicazione, la capacità d’ingaggio, di interazione, la costruzione della relazione e il coinvolgimento dei propri contatti la vera “leva” in grado d’innalzare la reputazione di un brand. Si possono avere centinaia di migliaia di fans o di followers ma sono numeri vuoti e inutili, buoni solo per farsi grandi nelle riunioni interne. La chiave è proprio nella domanda che è stata posta all’inizio: che ci fai con i fan?

La logica è che quando si decide di “entrare in Rete” lo si deve fare con una logica precisa: cosa posso dare io ai miei stakeholders, quale valore posso apportare alle loro communities e non cosa ci posso ricavare subito in termini di vendite o di marketing. In questa logica, l’acquisto dei fans e dei followers mostra tutta la sua assurdità e inutilità. Che senso ha comprare fans ai saldi asiatici se poi hai per le mani una community farlocca e non condividi con essa alcun valore?

Questa gara dal sapore infantile (ho più fans io di te) è la regola per molte aziende e lascia sullo sfondo il cuore del funzionamento del Web, ovvero la relazione. Ma è anche figlia, la gara, di un modello di misurazione delle performance sul web quasi completamente virato sugli aspetti quantitativi: la pubblicità si pianifica sulla base di utenti unici e pagine viste, i sistemi di analitycs tengono conto solo di fans, followers, numero di condivisioni, likes, retweet, ecc. L’aspetto qualitativo rimane molto ben nascosto, ignorato.

Non esistono ancora modelli metrici qualitativi, dirà qualcuno. E’ vero, aggiungo io, ed è per questo che non ha senso parlare oggi di “monitoraggio della reputazione”. Ma comprendere che la presenza sul Web è dialogo, ascolto, coinvolgimento, disponibilità alla risposta e che stormi di fans non sono in alcun modo sinonimo di “successo” sul Web e che questo sia garantito solo da una buona relazione e che solo questa, poi, ti restituirà valore in termini reputazionali e anche commerciali, credo sia il “minimo sindacale”, quando si sceglie di entrare sul Web. Minimo che però molti, in aziende grandi o piccole, ancora non raggiungono.