Tempo fa, in un acceso dibattito online su Linkiesta, definivo il mio lavoro di PR digitale come volto a ottenere “l’informazione più corretta e veritiera possibile sulla mia azienda”. Niente censure, nessuna forzatura, un atteggiamento etico e rispettoso verso operatori dell’informazione e stakeholders. Che ci si creda o meno è questo il mio modo di lavorare e come mio anche di tanti colleghi. Ma avevo segnalato, tempo fa, anche un problema a mio avviso non piccolo, ovvero il proliferare delle “bufale”, le notizie non vere o non corrette che circolano sul Web e avevo cercato di analizzare il danno che queste potevano portare ad aziende e personaggi e quali potessero essere i (pochi) strumenti a disposizione dei comunicatori digitali per arginarli. Leggo oggi su Repubblica che un’indagine americana ha stabilito che “la prima versione, nonostante sia stata corretta o confutata, resta quella impressa nella mente almeno per chi legge le notizie sul web”.
In buona sostanza quello che dice questa ricerca è semplice. Le dinamiche del Web, la sua velocità, il flusso ininterrotto di informazioni contribuiscono a non permettere alle persone di usufruire due volte e in maniera razionale di una notizia. Se si viene in contatto con un contenuto, questo “piace” ovvero attira l’attenzione, il suo significato (la notizia) rimane scolpita nella mente e a nulla servono rettifiche, smentite, correzioni. Se la notizia non è corretta o, peggio, è una bufala, rimane quella. Le conseguenze di questa dinamica sono molteplici. Innanzitutto è interessante notare il legame che c’è fra l’apprezzamento, il “mi piace” e la conservazione della notizia nella mente delle persone. Esiste quindi un legame potente fra viralità e capacità d’influenza di un contenuto.
Si conferma così lo scenario che avevo descritto qui, ovvero i rischi dell’introduzione del criterio della “viralità potenziale” fra i quelli per selezionare le notizie. I fatti vengono notiziati più per la loro capacità di guadagnare likes e condivisioni che non per il loro valore intrinseco. Questo, da una parte significa parlare alla pancia delle persone ma anche non avere alcun filtro per sterilizzare una notizia non vera. Se infatti aggiungiamo a questo elemento la fretta e la scarsa propensione a verificare le notizie sul Web, ecco emergere l’accoppiata diabolica: un fatto, di per sé potenzialmente virale, viene notiziato e pubblicato, senza grandi verifiche. Se poi si tratta di una bufala, a quel punto non esiste rimedio: si scolpisce nella mente delle persone e amen.
A parte la conseguente preoccupazione per il livello e la credibilità dell’informazione sul Web, quello che la ricerca americana apre è uno scenario inquietante per chi fa PR online e cura, in generale, la reputazione e la comunicazione di aziende e persone. Basta una notizia ben costruita ma falsa per colpire la credibilità e la reputazione di qualcuno. Il recupero, dopo è faticoso e difficile e forse, per certi aspetti, impossibile. L’esempio citato nella ricerca pubblicata da Repubblica, ovvero che molti americani credano ancora che Obama non sia nato negli Usa, è un esempio chiaro e terribile.
In realtà non si tratta di una cosa nuova, dirà qualcuno. Notizie false, campagne di stampa, abili passaparola negativi, dubbi, sospetti magistralmente instillati sono sempre esistiti, così come una delle regole base delle PR è che una smentita è una notizia data due volte. Sarà ma con il Web la “portata di fuoco” di queste distorsioni si è moltiplicata esponenzialmente. Sulla Rete i contenuti potenzialmente raggiungono singolarmente ogni utente. hanno una forza evocativa, per la loro possibilità, da una parte di essere proposti da influencer , dall’altra, di essere multimediali, decisamente superiore.
Esiste un rimedio? Una cultura della responsabilità per chiunque scriva sul Web, che lo renda consapevole del suo ruolo e dell’importanza della verifica, è la base imprescindibile, per un processo di inversione di questa tendenza. Per quanto riguarda le PR, non rimane che proseguire sulla strada del fornire un’informazione trasparente, attenta e veritiera, unica arma in grado, sul medio-lungo periodo, di contrastare anche gli effetti nefasti di una bufala. Ma quello che bisogna anche decisamente evitare è che questa dinamica del Web, questa bufala-awerness, non diventi esso stesso uno strumento di comunicazione, in una guerra di disinformazione. In buona sostanza chi fa PR, chi comunica sulla Rete non deve cedere alla tentazione d’impadronirsi di questo strumento e di maneggiarlo come fosse una sciabola con la quale attaccare il proprio avversario o il proprio competitor. Scenario fantascientifico? Solo un timore di là da venire? Purtroppo no, anzi.